[ trad. it. di E. Loewenthal, Guanda, Parma 2017]
Edmond ha diciassette anni, è sfuggito per caso alla deportazione e, sempre per caso, ha finito col partecipare, tramite azioni di sabotaggio di vario genere, alla cosiddetta “resistenza ebraica”. Il gruppo a cui si unisce è guidato da Kamil, un capo tanto intraprendente quanto carismatico; nel giro di poco, il suo quotidiano si riempie di addestramenti, avventurose incursioni destinate a recuperare cibo e vestiti per sé e per i compagni, obblighi e responsabilità di un’esistenza profondamente “comunitaria”. Pagina dopo pagina il liceale di buona famiglia si trasforma in giovane uomo in cerca di se stesso, così come di una risposta al dilagare della barbarie. L’ultimo libro di Appelfeld tradotto in italiano è al contempo un’ode a quanti hanno saputo opporsi alla violenza totalitaria – spesso mettendo a repentaglio la loro stessa vita, pur di difendere un’ideale di democrazia e libertà – e un romanzo di formazione, dove il passaggio all’età adulta si effettua sconfiggendo mostri ben diversi da quelli delle fiabe.
Qui come altrove, l’autore descrive senza analizzare, né tantomeno giudicare. E se le atmosfere e i fatti narrati non possono non far pensare a Primo Levi, sarebbe un errore considerare Il partigiano Edmond come una sorta di riscrittura di Se non ora, quando?. Più intimista, la prosa di Appelfeld si concentra sul valore degli affetti e dei legami famigliari, oltre che amicali, per metterne alla prova la stabilità in un “contesto limite”. Quasi essenziale sul piano della sintassi, il lavoro di Appelfeld non tende più a dare visibilità ad una guerriglia troppo spesso dimenticata, né a restituire un’identità a quanti l’hanno resa possibile, obbligati a compromessi difficilmente intelligibili in circostanze diverse da quelle che ne sono all’origine. Lungi dal presentarsi come una testimonianza ragionata e organica, benché svolta come “per procurazione”, la storia di Edmond si configura piuttosto quale tentativo di esplorare, per mezzo delle parole e della loro potenza evocatrice, il rapporto che ogni essere umano continua ad intrattenere sia con l’universo tangibile che con la trascendenza in situazioni, nonostante tutto, faticosamente rappresentabili. A ciò va aggiunto che, a differenza dell’antecedente leviano, il libro di Appelfeld rinvia a un’esperienza “propriamente” autobiografica, mentre, fino a prova contraria, Se non ora, quando? fondava la propria organizzazione interna più sull’impiego di prototesti del calibro di Di milkhome fun di yidishe partizaner in mizrekh-Eyrope di Mose Kaganovi, che sulla trasfigurazione delle memorie partigiane dello scrittore in Valle d’Aosta.
A ben guardare, nell’economia dell’opera, l’esclusione di riferimenti letterari chiaramente indentificabili assume un significato determinante. Edmond stesso afferma, non più in là del quinto capitolo, che «sono proprio i libri, la loro assenza, a rendere diversa la [ … ] vita di adesso da quella di prima». Non è un caso che nel ripercorrere gli episodi più significativi della sua vicenda personale Appelfeld eviti sistematicamente ogni rinvio di natura indiscutibilmente intertestuale. Come nella maggior parte dei suoi altri romanzi (con l’eccezione, per molti versi ovvia, di Storia di una vita), anche in questo caso a riattivare un rapporto con la tradizione e la continuità storica sono le “formule” più che le citazioni, le allusioni più che le varianti polisemiche. «Serberemo la nostra umanità anche qui, non ci lasceremo [trasformare] dal male. All’inizio le nostre serate di meditazione si terranno senza testi, ma non preoccupatevi, li troveremo presto», afferma Kamil di fronte ai compagni. Le sue frasi sono profetiche: i libri, sottratti alla miseria di una casa devastata, arriveranno. Così come per il lettore, progressivamente, le possibilità di “apertura” ad altri universi di senso, mediati – mai orientati – dal procedere di un racconto, che ha il respiro epico di certe parabole.
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